Alla scoperta di Elizabeth Strout

20.10.2025

Come spesso capita quando si leggono recensioni e post, si viene attratti da un libro o da un suggerimento, si acquista quel libro e poi, passata l'urgenza o trasferita su altri titoli, il piccolo scrigno che aveva attirato la tua attenzione rimane in sosta sullo scaffale della libreria.

Così è capitato per Mi chiamo Lucy Burton di Elizabeth Strout. Mi aveva attratta l'esperienza di questo personaggio, la sua provenienza, la sua famiglia, ed ancora l'ambientazione a New York. Ma soprattutto mi incuriosiva la penna di Elizabeth Strout: una voce femminile che volevo esplorare perché parte di quel contesto narrativo - nord america - che ho apprezzato attraverso le pagine di Paul Auster (vi è la pagina dedicata!).

Decido finalmente di dedicarmi alla lettura di Mi chiamo Lucy Burton un sabato pomeriggio e, complice il tempo a disposizione, ho terminato il libro in un giorno. 

Sono rimasta piacevolmente colpita dalla scrittura della Strout, che non ha tradito affatto le mie aspettative. Uno stile descrittivo quanto basta che fa entrare in sintonia con la voce narrante e con tutto quanto racconta.  

"Ci fu un tempo, ormai molti anni fa, in cui dovetti trascorrere quasi nove settimane in ospedale. Succedeva a New York e la notte, dal mio letto, vedevo davanti a me il grattacielo Chrysler con la sua scintillante geometria di luci." 

Il romanzo si apre in una stanza d'ospedale: Lucy è costretta a un lungo periodo di degenza e la madre appare, dopo tanti anni di assenza. Quel ritorno inaspettato fa riaffiorare ricordi, istantanee, frammenti del passato e del luogo in cui Lucy è cresciuta (Amgash, in Illinois) e in cui la madre vive ancora. Emergono piano, riaffiorano alla mente e si esplicitano attraverso parole e gesti in un dialogo che dichiara subito una lontananza delle due donne - seppur madre e figlia -, ma che rivela anche una possibile connessione che Lucy forse non immaginava.

La mia curiosità di lettrice non proveniva dalla foga del racconto, tutt'altro, ma dal desiderio di capire quali erano i punti di incontro e il motivo della separazione tra le due. E sono rimasta dentro la loro storia. E mi sono concentrata sullo stile della Strout. Lo so non è attraverso un solo libro che si può conoscere lo stile, ma qui ho trovato frasi essenziali, apparentemente semplici, che lavorano a più strati. Anche il non detto tra le due protagoniste ha la sua essenza, trattenere diventa un'arte, rende tutto l'impianto ancora più verosimile e la tensione emotiva guida nell'immersione della lettura.

Lucy Barton non è un'eroina: non domina la scena con grandi azioni, ma si impone attraverso piccoli particolari, attraverso la memoria imperfetta, i suoi ricordi persi nel tempo nascondono traumi vissuti nell'infanzia. La madre, allo stesso tempo, è ancora più lontana dal ruolo della madre-modello che potremmo avere in mente; è lì perché le è stato chiesto, non ha afflato verso la figlia, sembra pronta a scappare, ma in alcuni momenti fa tenerezza, mostra qualcosa che invece vorrebbe celare, mostra affetto verso Lucy.

Quando ho chiuso il libro della Strout mi è rimasta una sensazione di intimità allargata, un leggero ronzio, quello che lasciano i racconti di vita che arrivano in modo delicato e di cui vuoi sapere di più. Lucy Barton somiglia molto a quello che siamo quando proviamo a ricordare: non una cronaca perfetta, piccoli episodi senza continuità, una serie di lampi nella memoria che costituiscono una identità, che è unica. Non abbiamo una memoria netta e precisa, a puntate continue, ma viviamo di sprazzi, di episodi, di personaggi incontrati, di meteore comparse e poi chissà dove finite. Tutto questo fa parte del nostro essere. 

Non ho sbagliato a pensare che, amando la scrittura di Paul Auster, avrei cercato punti in comune con Elizabeth Strout. E in effetti, a mio parere, qualcosa c'è: entrambi costruiscono l'identità dei personaggi intrecciando presente e passato. La condizione attuale dei loro protagonisti è sempre dettata da ciò che è accaduto prima, da ciò che la memoria restituisce come ricordo, emozione, esperienza.

Certo, Auster sviluppa questo intreccio privilegiando il ruolo del caso: ciò che accade (o sarebbe potuto accadere) diventa il motore che devia i destini. Strout, per quel che ho potuto cogliere dal mio primo incontro con la sua scrittura, lavora diversamente. Mi sembra che lasci molto più spazio al lettore, lo invita a esplorare l'esperienza del personaggio seguendo la propria sensibilità emotiva, senza guidarlo in modo esplicito. 

In questo libro, seppur il luogo principale è l'interno dell'ospedale, siamo a New York, nel cuore di Manhattan, e la città si vede nelle luci della notte e del grattacielo Chrysler, La memoria e i ricordi delle due protagoniste ci portano invece nell'Illinois ad Amgash - che è un luogo di invenzione della Strout - e ci torniamo spesso, notando le differenze tra quel contesto rurale e semplice e la confusione della Grande Mela.

Mi ha colpito molto il riferimento di Strout in questo libro ad un fatto storico, che incide profondamente nella memoria collettiva, lo stesso evento a cui Auster fa riferimento in Follie di Brooklyn - uno dei miei libri preferiti: l'11 settembre 2001. Collocare i personaggi, Lucy qui e Zio Nat con Auster, in quel dato momento li fa sentire vivi, presenti, simili.  

So bene che nella produzione di Elizabeth Strout ritornano due figure femminili come poli magnetici: Lucy Barton e Olive Kitteridge (per la quale ha vinto il premio Pulitzer). Leggo dai vari pareri e dalle recensioni che hanno due personalità diverse: Lucy più introspettiva e dolente, mentre Olive più spigolosa e ruvida. Ho iniziato appena a conoscere Lucy che continuerò ad approfondire inoltrandomi nel viaggio con Tutto è possibile, il libro successivo relativo a questo personaggio.

So già che mi leggono molte estimatrici e estimatori della Strout e che arriveranno consigli rispetto ai testi da leggere per conoscere ed approfondire i suoi personaggi. Sono curiosa di capire come questa scrittrice riesca a gestire le due figure e quindi, prego, fate pure. Aspetto i titoli.

"Oggi che la mia vita è cambiata così tanto, ci sono momenti in cui ripenso agli anni della mia prima infanzia e mi ritrovo a dire: Non era poi chissà quale tragedia. E forse non lo era." 

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