La Luna e i Falò di Cesare Pavese

24.02.2021
Ho atteso molto, forse troppo, prima di leggere questo che, per me, è il secondo libro di Cesare Pavese. Ho sempre avuto una specie di timore reverenziale nei suoi confronti; penso di averlo considerato una persona vicina ma, allo stesso tempo, uno scrittore particolare, difficile, inarrivabile. Credo, per questo, di esserci arrivata più consapevole ed attenta, concedendomi così il modo di capire ancor di più la storia da lui raccontata e di cogliere alcuni spunti, tra i quali qualcosa di molto famigliare. Ma di questo parlerò più avanti! 
La mia edizione è Mondadori e non Einaudi, ma possedevo già questa ed ho preferito leggerla, seppur il gruppo di lettura è dedicato alla Einaudi. Mi perdoneranno!
La mia edizione è Mondadori e non Einaudi, ma possedevo già questa ed ho preferito leggerla, seppur il gruppo di lettura è dedicato alla Einaudi. Mi perdoneranno!

La luna e i falò è l'ultimo romanzo scritto da Pavese. Scritto nel 1949, tra settembre e novembre. In una sorta di impeto, quasi miracoloso, come scrive nell'introduzione alla mia edizione Antonio Sichera. Che prosegue dicendo: "Pavese dedicò a La Luna e i Falò delle energie sorgive, attingendo a una polla d'acqua fresca che gli scorreva nell'anima con un'irruenza unica, fino a fargli definire il romanzo come il suo <exploit più forte, l'opera che ho più goduto a scrivere>".

Lui ha goduto a scriverla ed io a leggerla. E' stato un fluire quasi delicato, anche laddove ha raccontato cose dolorose; ma il ritorno alla sua terra e la narrazione dei luoghi dove è nato la trovo molto dolce e ne sono rimasta incantata. Chissà che Pavese non avesse maturato nel mentre scriveva questo suo ultimo libro, l'idea di salutare così la sua terra, la vita terrena in assoluto. Fu pubblicato nell'aprile del 1950, quattro mesi prima che l'autore si suicidasse.

Il protagonista è Anguilla, un orfano, un "bastardo" cresciuto nelle Langhe, ritorna nei luoghi dell'infanzia dopo aver vissuto in America, mondo lontanissimo, e lì ha fatto fortuna.

Il romanzo scorre su due piani paralleli: uno articolato attraverso flash-back nei quali ci racconta la vita come figlio adottivo di una famiglia poverissima, che viveva nel podere "la Gaminella" e poi, ancora una volta abbandonato dopo la morte della madre adottiva, quando lavorava in campagna alla "Mora"; l'altro invece corre al presente, tempo nel quale Anguilla ritorna in paese e ritrova l'amico di un tempo, Nuto, e ripercorre i luoghi che lo hanno visto giovane. Ritorna alla Gaminella e incontra un ragazzino, Cinto, nel quale si rivede e al quale cerca di trasferire i suoi ricordi e quello che ha imparato.

Ma le campagne e le Langhe in particolare, sono anche terre di miseria, nelle quali un orfano viene preso in casa per avere le cinque lire di sovvenzione e due braccia in più da usare nei campi. Le Langhe sono terre di padroni che prendono tutti i frutti della terra lasciando poco ai mezzadri. La vita fatta di stenti, spesso si sfoga nella rabbia, nella follia e ciò viene raccontato attraverso i nuovi abitanti della Gaminella, Valino il padre violento, le donne povere che vivono di poco e con poco e Cinto, ragazzo che lasciato così non può certamente che continuare la vita povera del padre.

La scrittura di Pavese, lo sviluppo del racconto, ci porta anche ad una riflessione sull'Italia del dopoguerra. Quella di un paese diviso, dove i morti continuano a riaffiorare, dove l'odio continua ad essere alimentato. Queste riflessioni Pavese le affida a Nuto che in parte rappresenta le contraddizioni dell'Italia del tempo. Nuto, il suo amico di infanzia, è il "comunista" del villaggio, conosce le ingiustizie della guerra e del dopo, vede le difficoltà e le ragioni di ogni parte, ma allo stesso tempo crede nel potere della luna e nelle capacità magiche dei falò accesi nella notte di San Giovanni di risvegliare le campagne.

Anguilla racconta la sua adolescenza, il suo ingresso nel mondo dei braccianti delle terre sotto padrone, la vita alla "Mora". La scena è, per buona parte, della figlie del padrone: Irene, Silvia e Santina. Tutte e tre sono spinte dalla voglia di evadere dalla campagna, di essere accettate al di fuori della loro tenuta. Mentre il giovane Anguilla le vede come esseri superiori, inarrivabili, le osserva con ossequio e le dipinge in tutta la loro fragilità, nelle ambizioni e nelle speranze di giovani ragazze di campagna spezzate dalla vita e da un mondo che, fuori dalla loro casa, non è poi così bella ed accomodante come poteva sembrare. 

E così, nell'oscillazione tra presente e passato, il paesaggio rimane una costante. Nei falò, nelle fasi lunari, nelle stagioni che si ripetono, si rivela la presenza del paesaggio, di quella terra: le Langhe. La terra d'origine, con le sue colline di profumi e di gusti forti, che allo sguardo sembrano non avere confini. Terra di grande guerra civile e di grandi scrittori e intellettuali. Un mondo che, agli occhi del protagonista, sembra stia per finire sotto i colpi di una modernità difficile da decifrare, ma che appare anche molto pericolosa. Non vi è più la solidarietà contadina che Anguilla rimpiangeva da tanti anni e che non aveva trovato nelle città della California e nel deserto del Nuovo Messico. Solidarietà che lo porta a voler conoscere e seguire il piccolo Cinto. Zoppo nella realtà, così come il protagonista era "azzoppato" a causa del suo essere trovatello, un "bastardo". Quel segno emotivo che lo faceva guardare dagli altri con diffidenza, e che lo aveva fatto avvicinare a Nuto, unico suo amico.

Oltre al paesaggio, ne La luna e i Falò un ruolo fondamentale è ricoperto dalla memoria, il rapporto col passato diventa una condizione mentale. Una riscoperta di quei luoghi della memoria che investe la psicologia del protagonista e la muta in maniera profonda. Nel suo ritorno infatti si accorge che i luoghi dell'infanzia sono soltanto nel ricordo, non più presenti così come ai tempi. Tutto è mutato, oltre Nuto non ritrova nessun altro ad aspettarlo.

La lettura di questo libro mi ha dato molta emozione così come "Il Carcere", che parla di Brancaleone, il paese in cui sono nata e cresciuta e luogo del confino di Pavese nel 1935. Molte testimonianze, soprattutto delle mie zie paterne, mi hanno sempre raccontato di un rapporto stretto tra mio nonno Lorenzo e Cesare Pavese. Qualcuna diceva di incontri avvenuti in casa, qualcun'altra di incontri avvenuti anche fuori; in altri racconti parlavano di un Pavese presente in casa a leggere poesie o libri agli zii, i figli maschi, a cui era permesso di incontrarlo. Le femminucce non potevano, lui era un donnaiolo e non gli era permesso incontrarle. I miei nonni paterni, per questo rapporto avuto con Pavese, furono anche intervistati negli anni '60 e dalle loro parole trasparì solamente il carattere di questo personaggio, molto schivo e chiuso, a tratti antipatico. Nel tempo, Cesare Pavese, ha per me costituito un elemento costante nei racconti o negli aneddoti di famiglia, a volte così presente che non mi ha mai spinto a leggere i suoi romanzi. Forse in una sorta di ritrosia delle cose troppo vicine o delle cose troppo ripetute o ascoltate. Non so se è stato un errore o se invece questo è il momento giusto, e solo adesso sono matura abbastanza da poter cogliere elementi importanti, che prima non avrei colto. 

Tant'è che in questo romanzo vi è stato un passaggio che riporto qui di lato, che ho sottolineato e che mi è sembrato molto famigliare. Erano frasi che mio padre ripeteva spesso e che suo padre ripeteva a lui. Di questo ho avuto il conforto del resto della famiglia, le cugine più grandi che hanno sempre avuto presente questo "concetto" del nonno Lorenzo. 

Può essere una suggestione, può essere che Pavese avesse ascoltato altrove queste espressioni, ma leggerle qui mi ha dato molta emozione. Mi ha dato la concretezza di molti racconti, mi ha riacceso la voglia di risentirli, anche se adesso le voci sono quelle dei cugini più grandi che hanno potuto ascoltare quella dei nonni. 

I ricordi vivono anche per me!      

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